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di Carlo Trigilia

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3 giugno 2009

Che ruolo hanno giocato gli economisti nel favorire quelle modalità di organizzazione delle attività economiche che hanno portato alla crisi? La domanda può apparire a prima vista provocatoria e non ben fondata. Dopotutto, gli economisti sono degli studiosi, degli analisti. Perché dovrebbero aver avuto un ruolo importante nella crisi? In realtà, questo interrogativo si giustifica se teniamo conto che gran parte delle attività che caratterizzano la vita collettiva non sono organizzate in un certo modo semplicemente perché quello è il modo più efficiente di farle, ma anche perché è considerato il più appropriato dagli esperti dal ramo. In altre parole, perché è giustificato e legittimato per ottenere certi risultati.

Molti economisti hanno derubricato la questione della crisi a errori tecnici e a carenze dei regolatori. Ma non c'è bisogno di iscriversi al ristretto club ideologico di quanti non vedono il ruolo positivo - e da mantenere - della finanza nell'economia di mercato, per sostenere che questa valutazione è troppo riduttiva. Gli economisti - quelli appartenenti al grosso della disciplina (il mainstream), non importa quanto informati di finanza - hanno delle responsabilità maggiori per quello che è successo negli ultimi decenni.

Essi hanno infatti dato legittimità a una grande trasformazione nell'ambito della quale concreti interessi economici e politici hanno poi agito in certe direzioni. Non solo. Nell'ambito di una crescente globalizzazione culturale, si sono fatti paladini del modello del capitalismo anglosassone, presentandolo come meta da raggiungere agli anchilosati capitalismi europei e a quello giapponese. Anche in Italia - e a volte anche da questo giornale - sono spesso venute convinte e severe prediche in questa direzione. Ma perché tutto questo è accaduto?

La risposta va cercata nell'attaccamento della maggior parte degli economisti al paradigma centrale e originario della disciplina, per il quale più ci si avvicina al modello dei mercati autoregolati e maggiori sono i vantaggi per il benessere collettivo. Com'è noto, il ritorno all'egemonia forte di questo paradigma risale alla svolta neoliberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher per far fronte alle gravi difficoltà economiche dei rispettivi Paesi. Tale svolta era stata sostenuta da alcune correnti affermatesi nel pensiero economico, ma contribuì poi a rafforzare, a sua volta, l'influenza di tali correnti più radicalmente "mercatiste" nel complesso delle business schools, delle università e dei media specializzati. Da qui quel processo di legittimazione crescente e di incoraggiamento concreto di nuove pratiche nell'organizzare la finanza e le imprese di produzione.

Quanto alla finanza, è difficile credere che gli economisti non si rendessero conto di una serie di rischi, molto più elevati del passato, che venivano assunti dalle istituzioni finanziarie con la crescita della finanza strutturata. Tuttavia, in perfetta buona fede ritenevano probabilmente che valesse la pena di correrli perché in tal modo si estendeva la possibilità di accesso al credito a chi ne aveva bisogno, con conseguenze positive sullo sviluppo e sul benessere collettivo. E inoltre potevano essere soddisfatte le esigenze di assicurazione contro l'incertezza sui tassi di interesse e sulle valute dei partecipanti a un commercio internazionale in crescita.

Ma c'è un secondo motivo più astratto e forse più importante. Sin da Adam Smith, l'economia ha guardato con sospetto all'interferenza delle relazioni sociali e politiche, viste solo come fonte di collusione o di distorsione. Da questo punto di vista i nuovi strumenti finanziari sono apparsi come un modo di spersonalizzare la valutazione del rischio di credito, liberandosi dalla valutazione diretta degli agenti come persone, e quindi dalla componente fiduciaria non meramente calcolabile probabilisticamente, nella convinzione che i mercati mossi dall'incentivo dell'interesse potessero calcolare meglio e con più precisione i rischi. Specie, come ha più volte notato Alan Greenspan, quanto meno fossero intralciati da regolazioni che rischiavano di essere poco efficienti.

Si è poi visto che non è così, con le conseguenze che ne sono derivate. Nel frattempo, però, le transazioni finanziarie erano aumentate molto più del commercio internazionale e del Pil, segno che la finanza aveva creato occasioni di profitto che drenavano capitali alla ricerca di alte remunerazioni a breve. Insomma, il tentativo che attrae fatalmente gli economisti di spersonalizzare e depoliticizzare le transazioni economiche ha mostrato dei chiari effetti perversi su cui occorrerebbe riflettere.

Tanto più che questi effetti si aggiungono ad altri - non meno perversi - legati all'influenza della finanza sulla governance delle imprese. Anche in questo caso, l'idea della creazione di "valore per l'azionista" si giustifica - in astratto - col fatto che il mercato può valutare meglio di strumenti personalizzati (soggetti a distorsioni sociali) la performance dei manager. La proprietà delle imprese deve essere quindi pienamente contendibile sui mercati azionari, in modo che i manager sentano il fiato sul collo degli azionisti e si sforzino di creare valore a breve, anche con bonus e stock option legate alla performance dell'impresa. Diversamente, l'impresa perderà valore, e loro il posto.  CONTINUA ...»

Il risultato è che i manager orientano la gestione a breve, trascurano l'innovazione a più lungo termine, investono di più in acquisizioni e attività finanziarie, non considerano i lavoratori e la loro qualificazione un asset centrale delle imprese, si fanno meno problemi a licenziare e incrementano le disuguaglianze sociali. L'impresa infatti deve essere una "rete di contratti" e non una "comunità di interessi diversi". Eppure, questo è apparso - ed è stato presentato - come un modello più evoluto del vituperato e appesantito capitalismo renano-nipponico, o dei sistemi locali di piccola impresa italiani, troppo condizionati dalle famiglie e dalle comunità locali. I risultati dell'industria manifatturiera americana, che vediamo anche in questi giorni, non sembrano però confermare la sbandierata efficienza del capitalismo anglosassone.

3 giugno 2009
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